Corpi multipli che aderiscono uno sull’altro o ruotano su se stessi
come in una danza sufi, dove si perdono le coordinate e l’alternanza del
respiro assume un’altra cadenza. Sovraimpressioni tenui come l’ala arabescata di una farfalla su un
deposito alluvionale. Corpi che si separano o che affiorano da un luogo
impossibile (un mare uterino, una grata oltretombale, le pieghe di un abito
screziato). Figure - grisaille, fantasmi che prendono corpo (o vengono
“trattenuti” dalla retina) giusto un attimo prima di scomparire.
La fotografia (arte che più di tutte blocca e arresta il movimento,
costringe il suo inquieto manifestarsi alla reificazione e allo stato isolato,
lo blocca in un istante preciso del suo prodursi), riesce a mettere a fuoco
situazioni di paradossali di questo tipo a patto di una scommessa e di una
prova: fare del movimento un evento. E’ questo quello che la fotografia di
Salvatore Insana si incarica forse di operare (come si fa sulla carne viva di
un corpo).
In fotografie di questo tipo non si tratta di rappresentare figure
impegnate in un’azione (per quanto patetica o complessa) ma di cogliere (come
si fa con un fiore) degli eventi di
realtà. Singole istantanee di un movimento perpetuo di mutazione e
metamorfosi; istanti fuggevoli e delicati, che abitano in uno spazio
paradossale, inquieto, che barcolla sempre vicino alla nascita, ai primordi, al
mondo prima del mondo. E quando la fotografia si incarica di incorporare questo
spazio, di farlo “salire a bordo” lo fa a costo di una perdita e di un
sacrificio. Ma il sacrificio è sempre il preludio di una nascita seconda: al
corpo smembrato segue quello redento e trasfigurato.
Le fotografie in mostra riproducono spesso uno spazio liminare. Uno
spazio interamente vergine ma non desolato, un qualche tipo di membrana
elastica che però basta un soffio a scomporre nel pulviscolo infinito e
accidentale dei suoi elementi: qualcosa di astratto, che sta tra l’azzurro del
mare e l’azzurro del cielo ma anche fra i corpi e la loro aderenza, o
nell’impossibile campo e controcampo di chi guarda un volto desiderato che si
ritrae. Ma per accostarsi a questo spazio occorre compiere un paradossale moto
a luogo: “bisogna uscire dalla vita per entrare nella realtà”.
La realtà non può essere semplicemente “rappresentata”. Ogni
rappresentazione implica sempre un qualche tipo di tradimento o connotazione
che la sposta verso un altro livello, la traspone. La realtà si dà a noi in
modo istantaneo per piccole sensazioni e per trasalimenti o incanti del cuore. Va
quindi presentata, come fa la
Veronica quando mostra (così delicatamente, stringendo il velo fra le dita
sottili) il Panno su cui è impressa la traccia del Volto. Alla rappresentazione
si sostituisce il movimento paradossale di un’ostensione.
Eccole le fotografie di S.I: non “arrestano”, “bloccano” ma mostrano
(in una sorta di palpito ondeggiante: della muleta, dell’abito della ninfa, del
corpo che danza) questi momenti, privilegiati e complessi, che vengono incontro
al soggetto come un onda, una carezza o una confessione.
Giovanni Festa